12 Marzo 2025

Cinque minuti con… Marta Anatra

Abbiamo intervistato Marta Anatra, regista indipendente e autrice di Horkos, film vincitore del premio Gabbiano Innovazione Cinematografica e il premio Oxilia10 (ex aequo con Impressio in Urbe #3 — Brescia di G. Spina e G. Mazzone) a BFF42.

 

Cos’è per te oggi il cinema indipendente e cosa pensi che sarà in futuro? Non solo come genere cinematografico, ma anche come identità e modo di fare cinema.

 

Il cinema indipendente non è, e non dovrebbe essere considerato un genere cinematografico. L’indipendenza del mercato cinematografico e dei suoi incarichi industriali e commerciali è uno spazio che permette diverse modalità, forme e ricerche. In una società dove tutto è mercato, il cinema sembra essersi progressivamente ridotto a un ventaglio di formati e generi convalidati dall’industria cinematografica e dal settore culturale ufficiale. Il pubblico è considerato dai distributori come una massa uniforme, mentre per me è frammentato in diverse comunità. Oggi ci sarebbe spazio per la distribuzione delle diverse forme di fare cinema. Sempre più mi rendo conto che non si possono fare film che piacciono a tutti e che ogni film ha il suo pubblico. E dico ogni film e non ogni autore perché questa comunità di spettatori può cambiare da un film all’altro. Questa frammentazione del pubblico, trovo che sia qualcosa di meravigliosamente tribale che restituisce una dimensione umana al concetto di cultura. Questo rientra in una sorta di comunitarismo postmoderno dove gli individui fluttuano da una «tribù» all’altra in funzione dei diversi aspetti della loro identità. Purtroppo, la televisione, le sale cinematografiche e spesso anche i festival non fanno abbastanza per rispondere a questa diversità e non mostrano abbastanza film non conformi agli standard culturali e industriali.

 

Perché scegli di utilizzare i materiali d’archivio e come contribuiscono alla costruzione del tuo linguaggio cinematografico?

 

Benjamin parla di «salto della tigre nel passato» per indicare una modalità rivoluzionaria di riappropriazione della storia. Il salto del predatore felino, leggero e silenzioso, non è quello dello storico che analizza le fonti per cercare di ricostruire una verità storica. Il mio uso delle immagini d’archivio è quello di inserirle nel presente, confonderle e rendere quasi ambigua la loro temporalità. Questo libera l’immagine d’archivio da qualsiasi carica nostalgica o commemorativa e dà al passato tutta la sua potenza vitale.

 

Il settore cinematografico sta affrontando una transizione verso pratiche più sostenibili, dalla produzione alla distribuzione. Quali pensi siano le responsabilità di un regista in questo senso e come hai affrontato la questione della sostenibilità durante la realizzazione di Horkos?

 

Non sono molto informata di quali siano le pratiche sostenibili del cosiddetto « settore » cinematografico perché sento di non farne parte. Il mio modo di fare cinema é molto artigianale e non può identificarsi in un linguaggio industriale. Come dice Anna Tsing é tutta una questione di scala di grandezza. Un sistema virtuoso ed ecologicamente sostenibile non puo restare tale se cresce di scala di grandezza. Il capitalismo funziona sul concetto di crescita permanente ed in sé questo é un concetto anti ecologico. Insomma tutto questo per dire che il solo cinema sostenibile é un cinema in piccola scala, credo che dobbiamo imparare questo concetto su tutti i settori e farcene una ragione: finché il nostro obiettivo sarà quello della crescita, nessun ecologismo sarà efficace.

 

Spesso si dice che il cinema d’autore rischia di diventare sempre più di nicchia. Quali strategie potrebbero renderlo più accessibile senza comprometterne l’integrità artistica?

 

Non sento che la questione possa essere posta in questi termini. Credo che nessun autore rifiuterebbe una grande distribuzione del suo film. Ma è vero che oggi per poter convincere il mercato della diffusione ad investire su un film, gli autori si sentono obbligati a rispondere ad un certo conformismo, cambiando la forma del loro linguaggio. La questione di un cinema popolare oggi non può essere la stessa che é stata negli anni settanta. Già negli anni ottanta Godard si poneva il problema del linguaggio in una società sempre più satura di immagini e di comunicazione. Penso che oggi la questione potrebbe essere invertita chiedendosi se il pubblico sia o meno capace di apprezzare forme diverse di cinema. Io penso di sì, soprattutto se smettiamo di mettere al centro la questione dei grandi numeri di botteghino. Per esempio incoraggiando una filiera di cinema locale, o di mettendo in dialogo le comunità con i film che si proiettano, invitando per esempio gli autori a presentare i loro film in sala, o proponendo programmazioni che possano risvegliare un certo interesse in chi non ha l’abitudine di andare al cinema. Secondo me non dovrebbe essere l’artista ad adattare il suo linguaggio al pubblico, ma piuttosto spetta al distributore creare spazi di incontro tra pubblico e film differenti.