Controcampo italiano — Intervista a Daniela Persico
Questo è l’anno della riscoperta della storia del Festival e del suo archivio — archivio sul quale lavoriamo grazie al sostegno del Ministero della Cultura. Navigare nel passato per uno sguardo consapevole sul presente e segnare le rotte del futuro. La rassegna e il libro Controcampo italiano: cinque registi per immaginare un Paese edito da Minimum Fax ne sono testimoni. Daniela Persico, intervistata da Tea Paci, ci racconta il valore di questa direzione concettuale:
Bellaria Film Festival, un tempo chiamato “Anteprima per il cinema indipendente italiano”, ha una storia importante. Cosa ha significato per te riscoprirla?
Dopo le prime edizioni, in cui ci siamo posti più l’obiettivo di riportare un cinema giovane all’interno del festival, che da sempre ha scoperto i nuovi autori italiani, abbiamo iniziato a interrogarci sulla sua storia e il suo valore contestuale. Gli anni ’80 e ’90 sono stati decisivi per il cinema italiano nel far emergere nuove voci e anche nuove pratiche produttive che andassero molto al di fuori di quello che era il “sistema romano”, creando nuovi centri lungo tutta la penisola. Questo è il contesto nel quale anch’io, come giovane spettatrice, sono cresciuta. Ho studiato a Milano dove ho incontrato una realtà come Filmmaker Festival, nata proprio per sostenere il cinema indipendente negli anni ’80 e ’90, incentivando lo sviluppo di nuove società di produzione e di autori che raccontassero scenari inediti del cinema italiano. In quegli anni Bellaria rappresentava un luogo d’incontro speciale per questi autori, che immaginavano un futuro diverso per l’arte cinematografica. Iniziare a riscoprire questa storia è stata un’avventura attraverso il cambiamento dell’immaginario della società italiana, ma anche il modo di concepire un festival cinematografico.
La storia del Bellaria Film Festival è in parte custodita in un archivio che avete deciso di raccontare. Come? E quali sono i protagonisti di questa storia?
Quest’anno abbiamo deciso di lanciare un segnale per la riscoperta del Bellaria Film Festival e del suo archivio, che è composto da tante voci, alcune diventate molto celebri, come Silvio Soldini, altre rimaste per propria volontà “fuori dal coro”, ma che hanno rappresentato qualcosa di importante e unico per il cinema del futuro. Insieme a Minimum Fax, si è pensato a un libro che contenesse le storie di quei cineasti, percorsi raccontati in prima persona dai protagonisti (e raccolti da critici che li hanno amati e seguiti come Mario Blaconà, Alessandro Del Re, Beatrice Fiorentino, Emiliano Morreale, Giona A. Nazzaro, Dario Zonta) e illustrati da Simone Massi. Controcampo italiano: cinque registi per immaginare un Paese raccoglie la storia di capolavori degli anni ’90 che hanno segnato un passaggio del cinema italiano, aprendo ad uno scenario per nuovi modi di guardare e raccontare il nostro presente.
Si inizia dal corpus di opere di Paolo Benvenuti, un autore che ha sempre guardato al passato celato del nostro Paese per raccontarlo attraverso il filtro della cultura italiana, cercando un punto di vista inedito seppur insito nelle tracce del passato. Si continua con Antonio Capuano, un autore che con la sua inarrestabile forza propulsiva ha reinventato i generi e ha dato forma alle contraddizioni della contemporaneità. C’è Giuseppe Gaudino che con Giro di lune tra terra e mare ha realizzato il capolavoro italiano degli anni ’90, mettendo in fluida connessione i resti del nostro tempo e del passato, anticipando tanti autori del cinema europeo. Franco Maresco che attraverso la provocazione di un’immagine sempre spinta al limite di se stessa, si propone come disvelatrice degli angoli più neri del nostro paese. E c’è infine Corso Salani che apre alla scena del cinema del reale contemporaneo in cui la prima persona diventa la chiave interpretativa, l’unica risorsa, per affrontare il presente.
Sono loro i padri mancati del cinema italiano, quelli che avremmo voluto potessero essere al centro di una riflessione culturale condivisa, ma che sono sempre stati relegati ai margini. Una generazione cresciuta in momento politico complesso, in cui il cinema è stato messo da parte, rispetto all’immagine televisiva. I loro film sono delle pietre miliari, delle voci vulcaniche, che hanno saputo conservare le contraddizioni di quel tempo e che, soprattutto, riconosciamo come centrali oggi alla luce di quello che sta accadendo nel cinema contemporaneo.
Ai “padri mancati” sarà dedicata la Retrospettiva del Festival. Quale valore può avere per il cinema contemporaneo?
La retrospettiva che dedichiamo a loro è una raccolta di film importanti, che hanno intercettato la storia del nostro Festival oltre a quella dei registi stessi. Li ho voluti mettere in relazione con degli autori che segnano oggi dei nuovi orizzonti del cinema d’autore europeo — autori che potessero reinterpretarli. È evidente che questi film abbiano lasciato una traccia potente, che ha superato i confini nazionali, sembra essere stata tenuta nascosta e ormai quasi dimenticata, tanto che parliamo di persone che hanno dovuto sfidare la censura ai tempi, che si trovano in situazioni complesse per poter continuare ad esprimersi.
L’idea di questo libro è nata sulla spiaggia, quando il regista Miguel Gomes mi ha dichiarato di essere rimasto molto ispirato, ancora ai tempi in cui non pensava di fare il regista ed era un critico cinematografico, dalla visione di Giro di lune tra terra e mare. Da lì è nata una riflessione su come certi film siano stati centrali per i cinefili della mia generazione e quanto oggi siano al contempo dimenticati. Eppure, in qualche modo, sono lo specchio delle pratiche contemporanee di alcuni autori. E, quindi, mi è piaciuto far rileggere a un autore come Radu Jude il cinema di Paolo Benvenuti, perché sono due autori che riflettono sulla centralità del documento e sulla mediazione dell’immagine cinematografica; così come ho voluto portare a collisione l’universo irriverente di Franco Maresco con la riflessione sullo statuto ontologico della realtà di Sylvain George, o di collegare un autore bambino negli anni Novanta come Alessandro Comodin e farlo riflettere sul mondo mediale creato da Capuano per Vito e gli altri, o il ritorno in Italia di un documentarista come Giovanni Cioni quando Corso Salani sceglieva di allontanarsene per raccontare quell’Europa, così carica di promesse e inquietudini.
Qual è la tua speranza? Cosa ti auguri per questo progetto di riscoperta storica?
Spero che questo libro e la riproposizione dei film dei padri mancati al Bellaria Film Festival possano creare un contesto per incontri generazionali e per una riflessione condivisa rispetto alla recente Storia del nostro Paese e sul cambiamento culturale che abbiamo affrontato.
Intervista a Loris G. Nese
L’anno scorso, tra i progetti della sezione (in)emergenza, Z.O di Loris G. Nese ha vinto il premio di post-produzione audio (mix) a Cinecittà. Tea Paci lo ha incontrato per aggiornarci sul suo progetto cinematografico:
Ci racconti della genesi del tuo cortometraggio Z.O. e come si intreccia con una dimensione personale?
Il film nasce da un’iniziale voglia di raccontare uno specifico momento della vita, l’avvicinamento alla fine dell’adolescenza, quando tutto sembra ancora pericolosamente possibile e innocuo. Ancora di più se calato in un contesto di marginalità sociale. La Zona Orientale di Salerno è un’area di quartieri popolari che in città è percepita come una cosa molto diversa rispetto al centro, anche se non così lontana fisicamente, una sorta di periferia “morale”. L’accezione è negativa e crea divisioni con l’esterno, ma in parte è anche positiva perché crea un profondo senso di appartenenza all’interno della zona, un problematico orgoglio che è quello con cui sono cresciuto. La storia è collocata alla fine degli anni ’90, anni di faide tra clan in città. I racconti legati a quegli eventi hanno caratterizzato la mia crescita e definito l’identità della zona. Sono partito dai miei ricordi per scrivere il film.
Lavori ormai da diverso tempo con l’animazione. Cosa ti attrae di più di questo linguaggio?
Il bello dell’animazione sta nella possibilità di superare i confini fisici ed entrare nella testa dei personaggi. In ogni mio film animato mi piace esprimere i momenti di confusione mentale trovando una specifica resa visiva. In quei punti dei film può succedere qualunque cosa. Posso distruggere tutto, proprio fisicamente. Questa possibilità è la cosa che più mi diverte. Cioè la possibilità di sfondare le pareti e riprendere contatto con la materia, scomporre e ricomporre le cose, lavorare con tecniche e materiali diversi, sperimentare per cercare l’effetto più potente per raccontare un determinato passaggio. Ma sempre al servizio della narrazione. È anche vero che mi annoio facilmente e cerco sempre nuovi modi per impedirlo.
Dopo la partecipazione al progetto di sviluppo (In)emergenza, alla scorsa edizione del Bellaria Film Festival, quali piste si sono aperte per te?
Dal punto di vista creativo, presentare il progetto in uno stadio ancora embrionale ci ha dato la preziosa occasione per sperimentarne l’effetto sul pubblico. Il premio poi, che consisteva nella realizzazione del Mix 5.1 a Cinecittà, ha concretamente contribuito alla realizzazione del film, dandoci l’occasione di potenziare l’atmosfera sonora, che è uno degli aspetti a cui più teniamo.
So che i mesi passati sono stati particolarmente prolifici per il tuo lavoro. Quali progetti stai portando avanti?
Al momento sono impegnato principalmente su due progetti in fasi diverse. Uno è il mio primo lungometraggio, come sempre a metà tra fiction, documentario, e animazione, che ha dei legami con “Z.O.” e la mia crescita, prodotto da Chiara Marotta per Lapazio Film. Il progetto è stato presentato al mercato di Dok Leipzig e premiato ad Archivio Aperto a Bologna, e sarà pronto intorno alla fine di quest’anno. Contemporaneamente sto scrivendo la sceneggiatura di un lungometraggio di fiction, selezionato a Biennale College della Biennale di Venezia e presentato al Torino Film Lab.
Intervista a Ludovica Fales
Tea Paci, del Team Programmazione, ha discusso con la regista Ludovica Fales il continuo successo del suo ultimo docufilm, Lala. Durante la scorsa edizione del Bellaria Film Festival, il film ha ottenuto il Premio MyMovies nella sezione Gabbiano.
Che genesi ha il progetto e come sei arrivata a questo ricchissimo affresco di storie e prospettive?
Il mio incontro con Zaga, una ragazza di diciassette anni, i cui sogni ho visto polverizzarsi in modo sconvolgente di fronte alla impossibilità di ottenere un documento nel paese in cui era nata e cresciuta solo per il fatto che i suoi genitori fossero profughi sans papiers dalla ex Jugoslavia, insieme alla sua successiva temporanea sparizione e ricomparsa, mi hanno fatto riflettere sulla necessità di raccontare il tema della invisibilità attraverso una moltitudine di punti di vista differenti. Nasce, così, il bisogno di raccontare una storia composta di più storie, quella di Zaga, Lala e tutte le altre e gli altri che condividono la loro esistenza, come forma di riflessione non sulla negazione del visibile, ma sulla invisibilità come “soglia”, che si puo’ attraversare verso una presa di coscienza. Tutti i ragazzi e le ragazze che hanno partecipato agli workshops che ci hanno portato al progetto finale, hanno preso in carico la propria passata o presente invisibilità e l’hanno cambiata di segno, collettivamente. Ed è una riflessione attiva che speriamo siano capaci di fare anche gli spettatori e le spettatrici di fronte al film.
“Un documentario, un film di finzione, un laboratorio teatrale durato cinque anni”, così recita il trailer del film. Ci diresti meglio di questa forma ibrida e del perché come regista credi sia importante svelare il gesto cinematografico?
Esiste un momento preciso in cui questa “soglia” di cui parlavo si manifesta, chiedendo a chi guarda di implicarsi nella visione, di uscire dalla visione passiva e superare il gesto dell’osservazione per prendere parte, in qualche modo, al film. È la manifestazione di un “confine” che si dissolve: confine tra i generi cinematografici, ma anche confine stabilito per convenzione politica tra gli Stati nazionali, confine invisibile, frontiera, barriera, che separa chi è dentro e chi è fuori, chi ha cittadinanza e chi no, chi ha diritti e chi non ne ha. Nel momento in cui il confine appare ci si accorge della struttura della costruzione. Nel disvelamento del gesto esiste per me, pero’ , anche il suo dissolvimento, un “momento liscio”, che, insieme allo straniamento vuole provocare prossimità e unire le persone…
Lala è stato presentato alla scorsa edizione del festival nella categoria Gabbiano, dove ha vinto il premio MyMovies. Com’è stato presentare il film a Bellaria?
Bellaria è un festival molto innovativo perchè sa coniugare ricerca e sperimentazione linguistica, con la creazione di un pubblico attivo di persone giovani, che sono chiamate a prendere parola, a scrivere, a partecipare, a presentare i loro progetti ed evolvere durante il festival e, allo stesso tempo, è frequentato da un pubblico locale affezionato che lo segue con affetto e orgoglio. Inoltre, la partecipazione di MyMovies ha consentito anche a un pubblico meno prossimo di intervenire, votare e prendere parte. Per noi questo grande calore e partecipazione è stato fondamentale per credere nel film, incontrare un pubblico che ha passato con noi giorni a parlare e sentire il potenziale impatto del film nello scardinare stereotipi e barriere legate alla cultura rom e alle questioni di cittadinanza ed esclusione sociale.
Il film ha iniziato un bellissimo percorso nelle sale a partire da fine Gennaio. Cosa vuol dire per te portare in giro per l’Italia di oggi un’opera di questo tipo?
Ci ha davvero stupito l’ entusiasmo con cui il film è stato accolto e il grande desiderio di partecipazione e dibattito che abbiamo trovato in tutte le città in cui siamo stati finora (Roma, Trieste, Gorizia, Udine, Torino, Bologna, Milano). A breve ci aspettano date a Palermo, Marsala, Napoli e Firenze e speriamo di poter andare anche in tante altre città. L’incontro tra i protagonisti del film e le persone che sono venute a vederlo è stato vero e vedere le sale piene di gente diversa, seduta insieme in sala, ci ha dato la misura di quanto il cinema possa ancora essere un luogo di incontro, di condivisione orizzontale e di messa in comune di esperienze