21 Marzo 2025

Cinque minuti con… Perla Sardella

Abbiamo intervistato Perla Sardella, regista indipendente e autrice di Portuali, un documentario sulla lotta sindacale del C.A.L.P. (Collettivo Autonomo dei Lavoratori Portuali), un progetto a cui ha dedicato tre anni di lavoro. La sua realizzazione è stata supportata nella fase finale grazie a (IN)EMERGENZA di BFF41.

 

Com’è stata la tua esperienza ad (IN)EMERGENZA a BFF41? Cosa pensi di questo programma?

 

È stata un’esperienza sicuramente impegnativa ma arricchente. Presentare un film ancora in scrittura è molto delicato, si rischia di non essere pronte a ricevere feedback e le persone a cui si racconta il film che si ha in mente potrebbero vederlo in tutto altro modo, perciò poi va fatto un bilancio su quanto si racconta e su quanto viene consigliato. È un lavoro di traduzione, quasi, che trovo difficilissimo ma stimolante.

 

Da dove nasce l’esigenza di realizzare Portuali? Perché questa storia? E come sta andando con l’uscita del film nelle sale?

 

Nasce dall’amore che ho per filmare le persone che parlano, che si organizzano, che provano a dare senso a quello che pensano attraverso l’azione collettiva. Il film al momento sta girando molto in sala (e non solo) grazie alla distribuzione di Opendbb e stiamo notando un grande interesse per la tematica sulle armi e sulla guerra che purtroppo è tornata al centro delle notizie, ma anche per il modo in cui viene affrontata, come cinema diretto, scarno, d’osservazione.

 

Come vedi il cinema indipendente oggi?

 

Sicuramente è faticoso fare film indipendenti in Italia, per me non è mai stato facile trovare tempo e finanziamenti, specialmente se la tematica del film è molto politica. Sono contenta che si creino spazi per dare voce anche a questi progetti.

 

E da giovane regista, cosa ne pensi della situazione di autori e autrici emergenti in Italia?

 

Devo ammettere che la situazione è tutt’altro che semplice. Io per fare i miei progetti insegno a scuola e devo ritagliarmi tempo da un altro lavoro. Possiamo solo continuare sperando che la situazione migliori.

12 Marzo 2025

Cinque minuti con… Marta Anatra

Abbiamo intervistato Marta Anatra, regista indipendente e autrice di Horkos, film vincitore del premio Gabbiano Innovazione Cinematografica e il premio Oxilia10 (ex aequo con Impressio in Urbe #3 — Brescia di G. Spina e G. Mazzone) a BFF42.

 

Cos’è per te oggi il cinema indipendente e cosa pensi che sarà in futuro? Non solo come genere cinematografico, ma anche come identità e modo di fare cinema.

 

Il cinema indipendente non è, e non dovrebbe essere considerato un genere cinematografico. L’indipendenza del mercato cinematografico e dei suoi incarichi industriali e commerciali è uno spazio che permette diverse modalità, forme e ricerche. In una società dove tutto è mercato, il cinema sembra essersi progressivamente ridotto a un ventaglio di formati e generi convalidati dall’industria cinematografica e dal settore culturale ufficiale. Il pubblico è considerato dai distributori come una massa uniforme, mentre per me è frammentato in diverse comunità. Oggi ci sarebbe spazio per la distribuzione delle diverse forme di fare cinema. Sempre più mi rendo conto che non si possono fare film che piacciono a tutti e che ogni film ha il suo pubblico. E dico ogni film e non ogni autore perché questa comunità di spettatori può cambiare da un film all’altro. Questa frammentazione del pubblico, trovo che sia qualcosa di meravigliosamente tribale che restituisce una dimensione umana al concetto di cultura. Questo rientra in una sorta di comunitarismo postmoderno dove gli individui fluttuano da una «tribù» all’altra in funzione dei diversi aspetti della loro identità. Purtroppo, la televisione, le sale cinematografiche e spesso anche i festival non fanno abbastanza per rispondere a questa diversità e non mostrano abbastanza film non conformi agli standard culturali e industriali.

 

Perché scegli di utilizzare i materiali d’archivio e come contribuiscono alla costruzione del tuo linguaggio cinematografico?

 

Benjamin parla di «salto della tigre nel passato» per indicare una modalità rivoluzionaria di riappropriazione della storia. Il salto del predatore felino, leggero e silenzioso, non è quello dello storico che analizza le fonti per cercare di ricostruire una verità storica. Il mio uso delle immagini d’archivio è quello di inserirle nel presente, confonderle e rendere quasi ambigua la loro temporalità. Questo libera l’immagine d’archivio da qualsiasi carica nostalgica o commemorativa e dà al passato tutta la sua potenza vitale.

 

Il settore cinematografico sta affrontando una transizione verso pratiche più sostenibili, dalla produzione alla distribuzione. Quali pensi siano le responsabilità di un regista in questo senso e come hai affrontato la questione della sostenibilità durante la realizzazione di Horkos?

 

Non sono molto informata di quali siano le pratiche sostenibili del cosiddetto « settore » cinematografico perché sento di non farne parte. Il mio modo di fare cinema é molto artigianale e non può identificarsi in un linguaggio industriale. Come dice Anna Tsing é tutta una questione di scala di grandezza. Un sistema virtuoso ed ecologicamente sostenibile non puo restare tale se cresce di scala di grandezza. Il capitalismo funziona sul concetto di crescita permanente ed in sé questo é un concetto anti ecologico. Insomma tutto questo per dire che il solo cinema sostenibile é un cinema in piccola scala, credo che dobbiamo imparare questo concetto su tutti i settori e farcene una ragione: finché il nostro obiettivo sarà quello della crescita, nessun ecologismo sarà efficace.

 

Spesso si dice che il cinema d’autore rischia di diventare sempre più di nicchia. Quali strategie potrebbero renderlo più accessibile senza comprometterne l’integrità artistica?

 

Non sento che la questione possa essere posta in questi termini. Credo che nessun autore rifiuterebbe una grande distribuzione del suo film. Ma è vero che oggi per poter convincere il mercato della diffusione ad investire su un film, gli autori si sentono obbligati a rispondere ad un certo conformismo, cambiando la forma del loro linguaggio. La questione di un cinema popolare oggi non può essere la stessa che é stata negli anni settanta. Già negli anni ottanta Godard si poneva il problema del linguaggio in una società sempre più satura di immagini e di comunicazione. Penso che oggi la questione potrebbe essere invertita chiedendosi se il pubblico sia o meno capace di apprezzare forme diverse di cinema. Io penso di sì, soprattutto se smettiamo di mettere al centro la questione dei grandi numeri di botteghino. Per esempio incoraggiando una filiera di cinema locale, o di mettendo in dialogo le comunità con i film che si proiettano, invitando per esempio gli autori a presentare i loro film in sala, o proponendo programmazioni che possano risvegliare un certo interesse in chi non ha l’abitudine di andare al cinema. Secondo me non dovrebbe essere l’artista ad adattare il suo linguaggio al pubblico, ma piuttosto spetta al distributore creare spazi di incontro tra pubblico e film differenti.

19 Febbraio 2025

Cinque minuti con… Tommaso Santambrogio

Dopo la vittoria del premio Casa Rossa al 42° BFF, come è proseguito il tuo percorso e di Gli oceani sono i veri continenti?

 

Il film ha continuato e sta continuando a viaggiare tanto, sia per i festival di tutto il mondo che a livello distributivo. è da poco uscito in sala negli USA, e in Italia è approdato su MUBI. Dal canto mio, la vittoria del premio Casa Rossa ha contribuito a dare un’iniezione di fiducia fondamentale per la scrittura del prossimo progetto, su cui ora sto lavorando.

 

Quali sono i cinque consigli (o non-consigli) che daresti a un* giovane regista?

 

Non penso di essere già nella posizione di dare consigli. Se proprio dovessi dare cinque indicazioni, prendendole con le pinze, direi:
– portare avanti con determinazione il cinema che più si sente proprio, senza cedere a compromessi; se ci si compromette da giovani poi è difficile tornare indietro.
– uscire dalla propria comfort zone, cercando di aprirsi al mondo.
– sforzarsi di intercettare la contemporaneità, che non significa inseguire le notizie, ma ascoltare e interrogarci su ciò che ci accade attorno.
– fare cinema con persone della propria generazione, creando un gruppo di lavoro con cui crescere umanamente e artisticamente.
– fare cinema è una cosa seria, ma non bisogna prendersi troppo sul serio; è essenziale continuare a giocare, a divertirsi e a stupirsi.

 

Cos’è per te oggi il cinema indipendente e cosa pensi che sarà in futuro? Non solo come genere cinematografico, ma anche come identità e modo di fare cinema.

 

Il cinema indipendente è il motore più autentico dell’evoluzione artistica e linguistica della settima arte. È il luogo in cui si sperimentano nuovi processi creativi e soluzioni estetiche, preservando una freschezza ormai rara in un sistema industriale sempre più asfittico e sterile. Riflette sul contemporaneo, sulla narrativa dominante, e mette in discussione tanto le forme linguistiche del canone quanto quelle della società in cui viviamo. Ma soprattutto, è un cinema che accoglie l’imperfezione e, con essa, l’umanità – un valore oggi più importante che mai.

 

Credo che il cinema indipendente continuerà a essere lo spazio in cui interrogarsi e indagare il mondo e l’essere umano attraverso il linguaggio cinematografico in modo autentico, contribuendo a modellare le identità e la cultura del presente e del futuro.

 

Se dovessi definirne l’identità, direi che sta nella capacità di riconoscersi nella libertà del proprio sguardo e in una comunità che cerca di mantenere un pensiero autonomo e originale, anche a costo di andare controcorrente. Essere indipendenti significa cercare ostinatamente l’orizzonte, anche quando tutto sembra volerlo ostruire, inventando nuove strade e nuove forme.

 

Qual è il tuo punto di vista sullo slow cinema, ha ancora spazio? Può essere una forma di resistenza contro il consumismo dell’industria cinematografica?

 

Penso che, col passare del tempo, lo slow cinema appaia sempre più radicale, ma forse proprio per questo continuerà a esistere e a espandersi. Il cinema che cerca di rincorrere affannosamente la velocità tecnica e linguistica della tecnologia contemporanea mi fa quasi tenerezza: parte già sconfitto. Credo che interrogarsi sul tempo diventerà sempre più cruciale dal punto di vista sociale, e lo slow cinema è il movimento che più di ogni altro esplora e riflette sulla dimensione temporale del cinema.

 

Se sia una vera forma di resistenza al consumismo non lo so. Di certo critica la produzione di film pensati esclusivamente per il mercato e la domanda del momento. Fa ciò che l’arte dovrebbe sempre provare a fare: imporsi sull’industria cinematografica per trovare, attraverso questa imposizione, un dialogo autentico con lo spettatore. Mettiamola così: lo slow cinema è una forma cinematografica che detta le sue regole e lascia allo spettatore la libertà di accettarle o meno. E forse proprio per questo ne rispetta maggiormente l’intelligenza. È ciò che il cinema, soprattutto quello indipendente, deve e dovrà sempre fare.

20 Marzo 2024

Controcampo italiano — Intervista a Daniela Persico

Questo è l’anno della riscoperta della storia del Festival e del suo archivio — archivio sul quale lavoriamo grazie al sostegno del Ministero della Cultura. Navigare nel passato per uno sguardo consapevole sul presente e segnare le rotte del futuro. La rassegna e il libro Controcampo italiano: cinque registi per immaginare un Paese edito da Minimum Fax ne sono testimoni. Daniela Persico, intervistata da Tea Paci, ci racconta il valore di questa direzione concettuale:

 

 

Bellaria Film Festival, un tempo chiamato “Anteprima per il cinema indipendente italiano”, ha una storia importante. Cosa ha significato per te riscoprirla?

 

Dopo le prime edizioni, in cui ci siamo posti più l’obiettivo di riportare un cinema giovane all’interno del festival, che da sempre ha scoperto i nuovi autori italiani, abbiamo iniziato a interrogarci sulla sua storia e il suo valore contestuale. Gli anni ’80 e ’90 sono stati decisivi per il cinema italiano nel far emergere nuove voci e anche nuove pratiche produttive che andassero molto al di fuori di quello che era il “sistema romano”, creando nuovi centri lungo tutta la penisola. Questo è il contesto nel quale anch’io, come giovane spettatrice, sono cresciuta. Ho studiato a Milano dove ho incontrato una realtà come Filmmaker Festival, nata proprio per sostenere il cinema indipendente negli anni ’80 e ’90, incentivando lo sviluppo di nuove società di produzione e di autori che raccontassero scenari inediti del cinema italiano. In quegli anni Bellaria rappresentava un luogo d’incontro speciale per questi autori, che immaginavano un futuro diverso per l’arte cinematografica. Iniziare a riscoprire questa storia è stata un’avventura attraverso il cambiamento dell’immaginario della società italiana, ma anche il modo di concepire un festival cinematografico.

 

 

La storia del Bellaria Film Festival è in parte custodita in un archivio che avete deciso di raccontare. Come? E quali sono i protagonisti di questa storia?

 

Quest’anno abbiamo deciso di lanciare un segnale per la riscoperta del Bellaria Film Festival e del suo archivio, che è composto da tante voci, alcune diventate molto celebri, come Silvio Soldini, altre rimaste per propria volontà “fuori dal coro”, ma che hanno rappresentato qualcosa di importante e unico per il cinema del futuro. Insieme a Minimum Fax, si è pensato a un libro che contenesse le storie di quei cineasti, percorsi raccontati in prima persona dai protagonisti (e raccolti da critici che li hanno amati e seguiti come Mario Blaconà, Alessandro Del Re, Beatrice Fiorentino, Emiliano Morreale, Giona A. Nazzaro, Dario Zonta) e illustrati da Simone Massi. Controcampo italiano: cinque registi per immaginare un Paese raccoglie la storia di capolavori degli anni ’90 che hanno segnato un passaggio del cinema italiano, aprendo ad uno scenario per nuovi modi di guardare e raccontare il nostro presente.

 

Si inizia dal corpus di opere di Paolo Benvenuti, un autore che ha sempre guardato al passato celato del nostro Paese per raccontarlo attraverso il filtro della cultura italiana, cercando un punto di vista inedito seppur insito nelle tracce del passato. Si continua con Antonio Capuano, un autore che con la sua inarrestabile forza propulsiva ha reinventato i generi e ha dato forma alle contraddizioni della contemporaneità. C’è Giuseppe Gaudino che con Giro di lune tra terra e mare ha realizzato il capolavoro italiano degli anni ’90, mettendo in fluida connessione i resti del nostro tempo e del passato, anticipando tanti autori del cinema europeo.  Franco Maresco che attraverso la provocazione di un’immagine sempre spinta al limite di se stessa, si propone come disvelatrice degli angoli più neri del nostro paese. E c’è infine Corso Salani che apre alla scena del cinema del reale contemporaneo in cui la prima persona diventa la chiave interpretativa, l’unica risorsa, per affrontare il presente.

 

Sono loro i padri mancati del cinema italiano, quelli che avremmo voluto potessero essere al centro di una riflessione culturale condivisa, ma che sono sempre stati relegati ai margini. Una generazione cresciuta in momento politico complesso, in cui il cinema è stato messo da parte, rispetto all’immagine televisiva. I loro film sono delle pietre miliari, delle voci vulcaniche, che hanno saputo conservare le contraddizioni di quel tempo e che, soprattutto, riconosciamo come centrali oggi alla luce di quello che sta accadendo nel cinema contemporaneo. 

 

 

Ai “padri mancati” sarà dedicata la Retrospettiva del Festival. Quale valore può avere per il cinema contemporaneo?

 

La retrospettiva che dedichiamo a loro è una raccolta di film importanti, che hanno intercettato la storia del nostro Festival oltre a quella dei registi stessi. Li ho voluti mettere in relazione con degli autori che segnano oggi dei nuovi orizzonti del cinema d’autore europeo — autori che potessero reinterpretarli. È evidente che questi film abbiano lasciato una traccia potente, che ha superato i confini nazionali, sembra essere stata tenuta nascosta e ormai quasi dimenticata, tanto che parliamo di persone che hanno dovuto sfidare la censura ai tempi, che si trovano in situazioni complesse per poter continuare ad esprimersi.

L’idea di questo libro è nata sulla spiaggia, quando il regista Miguel Gomes mi ha dichiarato di essere rimasto molto ispirato, ancora ai tempi in cui non pensava di fare il regista ed era un critico cinematografico, dalla visione di Giro di lune tra terra e mare. Da lì è nata una riflessione su come certi film siano stati centrali per i cinefili della mia generazione e quanto oggi siano al contempo dimenticati. Eppure, in qualche modo, sono lo specchio delle pratiche contemporanee di alcuni autori. E, quindi, mi è piaciuto far rileggere a un autore come Radu Jude il cinema di Paolo Benvenuti, perché sono due autori che riflettono sulla centralità del documento e sulla mediazione dell’immagine cinematografica; così come ho voluto portare a collisione l’universo irriverente di Franco Maresco con la riflessione sullo statuto ontologico della realtà di Sylvain George, o di collegare un autore bambino negli anni Novanta come Alessandro Comodin e farlo riflettere sul mondo mediale creato da Capuano per Vito e gli altri, o il ritorno in Italia di un documentarista come Giovanni Cioni quando Corso Salani sceglieva di allontanarsene per raccontare quell’Europa, così carica di promesse e inquietudini.

 

 

Qual è la tua speranza? Cosa ti auguri per questo progetto di riscoperta storica?

 

Spero che questo libro e la riproposizione dei film dei padri mancati al Bellaria Film Festival possano creare un contesto per incontri generazionali e per una riflessione condivisa rispetto alla recente Storia del nostro Paese e sul cambiamento culturale che abbiamo affrontato.

 

16 Febbraio 2024

Intervista a Loris G. Nese

L’anno scorso, tra i progetti della sezione (in)emergenza, Z.O di Loris G. Nese ha vinto il premio di post-produzione audio (mix) a Cinecittà. Tea Paci lo ha incontrato per aggiornarci sul suo progetto cinematografico:

 

 

Ci racconti della genesi del tuo cortometraggio Z.O. e come si intreccia con una dimensione personale?

 

Il film nasce da un’iniziale voglia di raccontare uno specifico momento della vita, l’avvicinamento alla fine dell’adolescenza, quando tutto sembra ancora pericolosamente possibile e innocuo. Ancora di più se calato in un contesto di marginalità sociale. La Zona Orientale di Salerno è un’area di quartieri popolari che in città è percepita come una cosa molto diversa rispetto al centro, anche se non così lontana fisicamente, una sorta di periferia “morale”. L’accezione è negativa e crea divisioni con l’esterno, ma in parte è anche positiva perché crea un profondo senso di appartenenza all’interno della zona, un problematico orgoglio che è quello con cui sono cresciuto. La storia è collocata alla fine degli anni ’90, anni di faide tra clan in città. I racconti legati a quegli eventi hanno caratterizzato la mia crescita e definito l’identità della zona. Sono partito dai miei ricordi per scrivere il film.

 

Lavori ormai da diverso tempo con l’animazione. Cosa ti attrae di più di questo linguaggio?

 

Il bello dell’animazione sta nella possibilità di superare i confini fisici ed entrare nella testa dei personaggi. In ogni mio film animato mi piace esprimere i momenti di confusione mentale trovando una specifica resa visiva. In quei punti dei film può succedere qualunque cosa. Posso distruggere tutto, proprio fisicamente. Questa possibilità è la cosa che più mi diverte. Cioè la possibilità di sfondare le pareti e riprendere contatto con la materia, scomporre e ricomporre le cose, lavorare con tecniche e materiali diversi, sperimentare per cercare l’effetto più potente per raccontare un determinato passaggio. Ma sempre al servizio della narrazione. È anche vero che mi annoio facilmente e cerco sempre nuovi modi per impedirlo.

 

Dopo la partecipazione al progetto di sviluppo (In)emergenza, alla scorsa edizione del Bellaria Film Festival, quali piste si sono aperte per te?

 

Dal punto di vista creativo, presentare il progetto in uno stadio ancora embrionale ci ha dato la preziosa occasione per sperimentarne l’effetto sul pubblico. Il premio poi, che consisteva nella realizzazione del Mix 5.1 a Cinecittà, ha concretamente contribuito alla realizzazione del film, dandoci l’occasione di potenziare l’atmosfera sonora, che è uno degli aspetti a cui più teniamo.

 

So che i mesi passati sono stati particolarmente prolifici per il tuo lavoro. Quali progetti stai portando avanti?

 

Al momento sono impegnato principalmente su due progetti in fasi diverse. Uno è il mio primo lungometraggio, come sempre a metà tra fiction, documentario, e animazione, che ha dei legami con “Z.O.” e la mia crescita, prodotto da Chiara Marotta per Lapazio Film. Il progetto è stato presentato al mercato di Dok Leipzig e premiato ad Archivio Aperto a Bologna, e sarà pronto intorno alla fine di quest’anno. Contemporaneamente sto scrivendo la sceneggiatura di un lungometraggio di fiction, selezionato a Biennale College della Biennale di Venezia e presentato al Torino Film Lab.

16 Febbraio 2024

Intervista a Ludovica Fales

Tea Paci, del Team Programmazione, ha discusso con la regista Ludovica Fales il continuo successo del suo ultimo docufilm, Lala. Durante la scorsa edizione del Bellaria Film Festival, il film ha ottenuto il Premio MyMovies nella sezione Gabbiano.

 

 

Che genesi ha il progetto e come sei arrivata a questo ricchissimo affresco di storie e prospettive?

 

Il mio incontro con Zaga, una ragazza di diciassette anni, i cui sogni ho visto polverizzarsi in modo sconvolgente di fronte alla impossibilità di ottenere un documento nel paese in cui era nata e cresciuta solo per il fatto che i suoi genitori fossero profughi sans papiers dalla ex Jugoslavia, insieme alla sua successiva temporanea sparizione e ricomparsa, mi hanno fatto riflettere sulla necessità di raccontare il tema della invisibilità attraverso una moltitudine di punti di vista differenti. Nasce, così, il bisogno di raccontare una storia composta di più storie, quella di Zaga, Lala e tutte le altre e gli altri che  condividono la loro esistenza, come forma di riflessione non sulla negazione del visibile, ma sulla invisibilità come “soglia”, che si puo’ attraversare verso una presa di coscienza. Tutti i ragazzi e le ragazze che hanno partecipato agli workshops che ci hanno portato al progetto finale, hanno preso in carico la propria passata o presente invisibilità e l’hanno cambiata di segno, collettivamente. Ed è una riflessione attiva che speriamo siano capaci di fare anche gli spettatori e le spettatrici di fronte al film.

 

Un documentario, un film di finzione, un laboratorio teatrale durato cinque anni”, così recita il trailer del film. Ci diresti meglio di questa forma ibrida e del perché come regista credi sia importante svelare il gesto cinematografico?

 

Esiste un momento preciso in cui questa “soglia” di cui parlavo si manifesta, chiedendo a chi guarda di implicarsi nella visione, di uscire dalla visione passiva e superare il gesto dell’osservazione per prendere parte, in qualche modo, al film. È la manifestazione di un “confine” che si dissolve: confine tra i generi cinematografici, ma anche confine stabilito per convenzione politica tra gli Stati nazionali, confine invisibile, frontiera, barriera, che separa chi è dentro e chi è fuori, chi ha cittadinanza e chi no, chi ha diritti e chi non ne ha. Nel momento in cui il confine appare ci si accorge della struttura della costruzione. Nel disvelamento del gesto esiste per me, pero’ , anche il suo dissolvimento, un “momento liscio”, che, insieme allo straniamento vuole provocare  prossimità e unire le persone…

 

Lala è stato presentato alla scorsa edizione del festival nella categoria Gabbiano, dove ha vinto il premio MyMovies. Com’è stato presentare il film a Bellaria?

 

Bellaria è un festival molto innovativo perchè sa coniugare ricerca e sperimentazione linguistica, con la creazione di un pubblico attivo di persone giovani, che sono chiamate a prendere parola, a scrivere, a partecipare, a presentare i loro progetti ed evolvere durante il festival e, allo stesso tempo, è frequentato da un pubblico locale affezionato che lo segue con affetto e orgoglio. Inoltre, la partecipazione di MyMovies ha consentito anche a un pubblico meno prossimo di intervenire, votare e prendere parte. Per noi questo grande calore e partecipazione è stato fondamentale per credere nel film, incontrare un pubblico che ha passato con noi giorni a parlare e sentire il potenziale impatto del film nello scardinare stereotipi e barriere legate alla cultura rom e alle questioni di cittadinanza ed esclusione sociale.

 

Il film ha iniziato un bellissimo percorso nelle sale a partire da fine Gennaio. Cosa vuol dire per te portare in giro per l’Italia di oggi un’opera di questo tipo?

 

Ci ha davvero stupito l’ entusiasmo con cui il film è stato accolto e il grande desiderio di partecipazione e dibattito che abbiamo trovato in tutte le città in cui siamo stati finora (Roma, Trieste, Gorizia, Udine, Torino, Bologna, Milano). A breve ci aspettano date a Palermo, Marsala, Napoli e Firenze e speriamo di poter andare anche in tante altre città. L’incontro tra i protagonisti del film e le persone che sono venute a vederlo è stato vero e vedere le sale piene di gente diversa, seduta insieme in sala, ci ha dato la misura di quanto il cinema possa ancora essere un luogo di incontro, di condivisione orizzontale e di messa in comune di esperienze